GREENWASHING, NO GRAZIE
Parigi, settembre 2021: uno dei produttori di scarpe sportive più noti al mondo, con sede centrale in Germania, incappa nei rigori dell’Autorità francese di controllo della pubblicità.
Cos’era successo? Nella propria comunicazione pubblicitaria,
l’azienda aveva sostenuto che un proprio marchio di scarpe fosse prodotto al
50% con materiali riciclati. Secondo l’Autorità francese, l’affermazione era
generica e non consentiva al consumatore di apprezzare esattamente il
significato del messaggio essenziale che veniva comunicato (50% di materiale
riciclato).
Quali in dettaglio le ragioni
della contestazione formulata al produttore? La pubblicità mostrava una
scarpa intenta a schiacciare una bottiglia di plastica vuota; sullo sfondo, si
leggeva “Almeno il 50% di materiali riciclati; tutta la plastica utilizzata
nella scarpa viene riciclata”. Secondo l’Agenzia francese, non era chiaro se
fossero riciclati i materiali usati in produzione, o solo la plastica
utilizzata in produzione dopo la fine dell’uso. Inoltre, veniva pesantemente
contestata la correttezza del logo “End plastic waste”,
considerato scorretto in quanto la plastica, pur in parte riciclata, era ancora
ben presente in produzione.
Facciamo un passo indietro, per
comprendere meglio i profili legali di questo genere di casi e la loro
replicabilità nel contesto italiano.
Tradizionalmente, la pubblicità viene considerata
come il regno dell’esagerazione e
dell’iperbole, un po’ come se questi fossero difetti connaturati e
inevitabili nello strumento pubblicitario, di fronte ai quali i consumatori
sarebbero in qualche misura addestrati per evitare ricadute troppo pesanti a
proprio danno.
Sul piano giuridico però le cose
non stanno così: la pubblicità deve presentare determinati requisiti minimi di
correttezza importanti affinché la comunicazione commerciale possa dichiarare
od evocare “benefici di carattere
ambientale o ecologico”.
Da tempo, anche in Italia, l’Autorità
Garante per la Concorrenza e il Mercato ha iniziato ad occuparsi della
tematica “pubblicità ingannevole”: nel 2012 ad esempio, quando
un’inserzione pubblicitaria che vantava iperboliche qualità ambientali per
delle bottiglie in plastica venne sanzionata per la “enfasi eccessiva
rispetto alla reale portata dell’impegno ambientale della società”.
Più recentemente, il Regolamento
EU 2020 sulla tassonomia definisce
come ecosostenibile un’attività
economica che:
1) contribuisce in maniera
sostanziale a uno o più obiettivi ambientali;
2) non danneggia in modo
significativo nessun obiettivo ambientale europeo;
3) è svolta senza violare i
diritti umani.
Dunque, No Greenwashing” (green, “verde” +
whitewashing, “riverniciare per coprire le imperfezioni”).
Come è possibile rispettare gli attuali requisiti obbligatori della
pubblicità ecologica?
Quando si parla di “dati veritieri, pertinenti e
scientificamente verificabili” occorre evitare, oltre alla diffusione di
dati aziendali falsi, affermazioni che, per la loro genericità, possano essere
agevolmente contestate attraverso una “prova contraria” (es: “emissioni zero”,
“le emissioni più basse del settore”, ecc.).
Quando si parla invece di
pertinenza (“comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o
dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono”) occorre non andare a caccia di farfalle.
Perché proprio le farfalle?
Negli anni 80 del secolo scorso,
la compagnia petrolifera Chevron,
per convincere i clienti della propria eccellente e complessiva sostenibilità
ambientale, aveva realizzato diverse pluripremiate pubblicità televisive che
mostravano i dipendenti della compagnia impegnati attivamente nella tutela di
farfalle, tartarughe e altri animali ecologicamente significativi.
A seguito delle azioni
giudiziarie intentate da associazioni ambientaliste, Chevron divenne la prima
importante azienda accusata con successo di appropriarsi ingiustificatamente di
un’immagine sostenibile, per allontanare l’attenzione dai propri impatti
negativi sul pianeta.
Un fenomeno non isolato ma che ha
oggi dimensioni notevoli. Come rilevato dall’indagine Europadirect il 1
febbraio 2021, circa la metà delle affermazioni “ecologiche” presenti nella
comunicazione web delle aziende presenta un fondamento quanto meno discutibile.
Fuggire dal greenwashing significa rispondere ad esigenze di legalità e
correttezza nella comunicazione commerciale ed all’interesse delle aziende ad
evitare sanzioni e soprattutto inutili ed evitabili danni di immagine.
In un prossimo futuro, è anche
possibile che, per le aziende del settore, il tema diventi rilevante sotto un
profilo diverso da quello finora trattato: quello del cd. “sport-wash”.
Di cosa si tratta? L’espressione allude
alla crescente tendenza di aziende ritenute molto inquinanti di provare a
ripulire un’immagine compromessa attraversi sponsorizzazioni di eventi dello
sport, magari insieme con aziende del settore sportivo. E’ evidente che qui il
tema si fa ancora più complicato, non potendosi ragionevolmente richiedere ad
un’azienda del settore sportivo di vigilare su sponsorizzazioni provenienti da
altri ambiti produttivi. Peraltro, prendiamo nota anche di questa tendenza, e
accendiamo un campanello di attenzione anche sui compagni di viaggio.
In conclusione, è necessario
investire nel miglioramento degli impatti ambientali delle nostre aziende e comunicare
correttamente, senza timori di quanto realizzato.
Questa è e sarà la strada per il
successo.
Articolo di Luciano Butti – B&P Avvocati (www.buttiandpartners.com) per Assosport